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GEN
2013
Casi Clinici

[CELIACHIA] Le tante facce della malattia celiaca (2008)


Il caso
A.L., 32 anni, di nazionalità inglese, trasferitasi in Italia da circa 15 anni per motivi di studio. La signora si presenta per insorgenza di dolore addominale diffuso da una settimana. Riferisce una storia di sindrome dell’intestino irritabile dall’età di 18 anni, con tendenza ad alvo diarroico. I sintomi sembrano associati a stress emotivo, in quanto nei periodi di ferie trascorsi nel suo paese sembrano regredire. Non trae giovamento dalla sospensione di latticini nella dieta con cicli ripetuti di pre-probiotici; le feci sono risultate più volte negative all’esame colturale e parassitologico e alla ricerca del sangue occulto. Nell’ultimo anno, in concomitanza di un periodo di particolare stress familiare e lavorativo, i sintomi sono peggiorati, con un aumento del numero delle scariche accompagnate da dolore addominale, per cui il precedente medico di famiglia ha suggerito l’esecuzione di una colonscopia con biopsie multiple risultata negativa per patologie organiche. In passato la paziente ha avuto problemi di fertilità e un aborto spontaneo all’età di 24 anni; nell’occasione fu seguita da un centro specialistico che escluse patologie endocrine. A.L. è in sovrappeso (1,54 cm, 66 kg, indice di massa corporea [BMI] 27,8 kg/m2). Assume costantemente caffè, saltuariamente alcolici ai pasti, non fuma. Dieta libera, stile di vita sedentario, diuresi nella norma. Assume lorazepam al bisogno per problemi di insonnia. In passato, per un’anemia microcitica familiare, ha seguito cicli di ferro per os, mal tollerato per insorgenza di grave tensione addominale. L’esame obiettivo rileva buone condizioni cliniche, un marcato meteorismo addominale con dolore alla palpazione profonda, lieve resistenza su tutti i quadranti e peristalsi aumentata; Blumberg e Murphy negativi, Giordano negativo. Per il resto, tutto nella norma. Recentemente erano stati richiesti test vari che A.L. mostra al medico: colesterolo totale 190 mg/dL, colesterolo-HDL 48 mg/dL, trigliceridi 200 mg/dL, glicemia 90 mg/dL, aspartato aminotransferasi-alanina aminotransferasi (AST-ALT) 91-50 UI/l, gamma-glutamiltranspeptidasi (γGT) e fosfatasi alcalina (ALP) normali, amilasi e lipasi normali, bilirubina totale e frazionata normali, sangue occulto fecale assente; parassitologico e colturale feci negativo, esame urine normale. L’emocromo con formula conferma il quadro noto di anemia microcitica. Un Rx addome a vuoto risulta normale; l’ecografia all’addome superiore mostra lieve steatosi epatica, anse ileali non ispessite; il resto nella norma.

Il ragionamento diagnostico differenziale
La presenza di lieve ipertransaminasemia in una donna sovrappeso, con riscontro ecografico di steatosi, potrebbe in prima istanza far pensare a una steatosi non alcolica (NAFLD), per la cui diagnosi occorre tuttavia escludere le altre possibili noxae di patologia epatica e riscontrare un quadro dismetabolico tale da giustificarla. In questo caso la paziente presenta dei fattori suggestivi (ipertrigliceridemia, sovrappeso e lieve resistenza insulinica), ma la patologia decorre solitamente asintomantica, limitandosi eventualmente a un quadro dispeptico. Inoltre, la γGT è solitamente elevata, reperto non patognomonico ma solitamente presente. Occorre quindi prendere in considerazione comorbidità che possano meglio spiegare la sintomatologia. Alla luce del quadro laboratoristico e clinico, un’epatite virale risulta improbabile anche se il riscontro ecografico di steatosi e ipertransaminasemia richiedono comunque un approfondimento. L’ipotesi di epatite alcolica viene rapidamente esclusa sulla base del dato anamnestico, della normalità della γGT e della presenza di microcitosi. L’assenza di sangue nelle feci e una precedente colonscopia negativa fanno escludere l’ipotesi di rettocolite ulcerosa. Il morbo di Crohn non può essere escluso a priori, ma il riscontro ecografico di anse nella norma e la mancanza di segni e sintomi occlusivi/ subocclusivi ne rendono comunque poco probabile la forma stenosante, mentre per la forma infiammatoria sono indicati ulteriori approfondimenti.
Il quadro clinico e l’età della paziente ci portano a non escludere un’eventuale patologia a carico dell’apparato genitale o della pelvi, e quindi a eseguire accertamenti. La sindrome dell’intestino irritabile rimane una diagnosi di esclusione, in questo caso suggestiva in virtù della componente ansiosa che accompagna l’esacerbarsi della sintomatologia e dell’assenza, nella paziente, di segni e sintomi di malassorbimento che indicherebbero una patologia organica.

Verso la conferma della diagnosi
Va presa in considerazione una forma atipica di celiachia e vanno quindi prescritti esami specifici: marker dell’epatite B (HBV), antiepatite C (HCV), anti-immunodeficienza umana (HIV), virus di Epstein-Barr (EBV), citomegalovirus (CMV), risultati tutti negativi; anticorpi antiendomisio e anti-transglutaminasi (+++) e autoanticorpi anti-NOS, anch’essi negativi. A questo punto viene effettuata una gastroduodenoscopia con biopsie digiunali che evidenzia atrofia dei villi del tenue e assenza di patologie su esofago e stomaco. Alla luce di questi approfondimenti, la diagnosi di malattia celiaca risulta la più probabile, e verrà ulteriormente avvalorata dalla remissione dei sintomi in seguito a una dieta aglutinata.

Discussione
Il caso clinico sopra riportato è emblematico di come una patologia tanto frequente come la malattia celiaca sia spesso sottovalutata e misconosciuta. In questo caso la precedente diagnosi di sindrome dell’intestino irritabile ha sicuramente creato problemi alla paziente, che per molti anni ha seguito una dieta libera, alla base del danno istologicamente visibile, senza parlare degli esami superflui (anche invasivi) e delle terapie inutili, con importanti effetti negativi sulla sua qualità di vita.
In questo caso la personalità ansiosa della paziente e la regressione dei sintomi in occasione di periodi di minore stress hanno certamente tratto in inganno i medici curanti, ignorando i possibili cambiamenti dietetici che questi spostamenti potevano comportare.
La facilità con cui la malattia celiaca viene spesso non riconosciuta è anche dovuta alla diversità delle sue presentazioni cliniche. A seconda di queste, se ne distinguono 5 categorie:

  1. forma classica (diarrea, perdita di peso, dolori addominali e flatulenza);
  2. forma atipica (sintomi gastrointestinali aspecifici come dolori e gonfiore accompagnati da varie manifestazioni extragastrointestinali come dermatite erpetiforme, anemia, manifestazioni neurologiche, osteoporosi, astenia, bassa statura, infertilità, complicanze ostetriche ecc.);
  3. forma silente (assenza di sintomatologia e diagnosi effettuata nel corso dello studio di pazienti ad alto rischio o casualmente);
  4. forma latente (pazienti con sierologia positiva e biopsia normale nonostante una dieta libera);
  5. forma refrattaria (nessun miglioramento in seguito a una stretta dieta aglutinata o con risposta solo iniziale alla dieta con conseguente ricomparsa dei sintomi).

I pazienti celiaci hanno un’aumentata incidenza di patologie autoimmuni come disordini tiroidei, diabete insulino-dipendente e di tipo 2, colite ulcerosa, cirrosi biliare primitiva, colangite sclerosante, sindrome di Sjögren, lupus eritematoso sistemico (LES), deficit di IgA ecc. La patogenesi di questa malattia è legata a un’alterata risposta delle cellule T all’ingestione di prolamine in individui geneticamente predisposti. Si è studiato infatti come l’alta incidenza di celiachia in gemelli omozigoti (maggiore del 70%) sia dovuta alla presenza in questi soggetti di antigeni leucocitari umani (HLA) identici di tipo DR3-DQ2 o, meno frequentemente, di DR5/7- DQ2, o ancora DR4-DQ8. Probabilmente gli antigeni presentati da questi aplotipi presentano la gliadina alle cellule T della mucosa intestinale, inducendo una risposta immunitaria verso antigeni self, mediata verosimilmente da interleuchina (IL)-5 e interferone gamma.

L’iter diagnostico utile nel sospetto di celiachia
La diagnosi si basa prevalentemente su biopsie ed esami sierologici.
La sierologia è importante anche al fine di selezionare i pazienti per la biopsia e nel follow-up, oltre che a scopo prettamente diagnostico. Si avvale dei seguenti test:

  • AGA (anticorpi anti-gliadina): sono sensibili ma non specifici (soprattutto le IgG possono dare falsi positivi), e il loro ruolo è quindi dibattuto; sono utili prevalentemente nei pazienti con deficit selettivo di IgA (vengono biopsiati nel caso di positività AGA IgG);
  • EMA (anticorpi anti-endomisio): hanno una specificità praticamente del 100% per celiachia, tanto che una biopsia negativa deve essere messa in discussione nel caso di positività per questi anticorpi; la sensibilità è invece minore e correla con il grado di atrofia dei villi (il test può infatti risultare negativo in caso di atrofia solo parziale);
  • tTG IgG e IgA (anticorpi anti-transglutaminasi tissutale): in passato diversi studi assimilavano la specificità di questi anticorpi con quella degli EMA, mentre recentemente è stato dimostrato che questa si aggira intorno al 90%, in quanto possono essere positivi in altre condizioni patologiche come artrite reumatoide, patologie epatiche, disordini infiammatori intestinali, patologie cardiache. La loro sensibilità è stata dimostrata essere solo il 40% circa. In parte, questa minor accuratezza è stata attribuita ai diversi kit usati nei laboratori.

La biopsia rimane il gold standard nella diagnosi di celiachia; 3 biopsie per la diagnosi e una nel follow-up rappresentano l’approccio riconosciuto come più affidabile. Nonostante questo, tuttavia, importanti studi internazionali hanno riportato l’evidenza di un 10,7% di errore nella diagnosi bioptica.

La gestione della dieta
La dieta senza glutine è praticamente l’unico approccio terapeutico efficacie nei pazienti celiaci, ma la compliance a lungo termine non è molto alta, soprattutto per quanto riguarda i pazienti con forme latenti che quindi non traggono un eclatante giovamento da questa terapia. La difficoltà di seguire una dieta a lungo termine gluten-free consiste prevalentemente nella difficile gestione dei pasti fuori casa, nel minor gusto di alcuni di questi alimenti e nella difficoltà di preparazione di piatti completamente privi di ingredienti contenenti glutine. L’ingestione accidentale di glutine è infatti una delle cause principali delle forme non-responder, in quanto può essere contenuto in tracce in numerosi alimenti per contaminazione durante la produzione o assunto per disinformazione riguardo agli alimenti che normalmente lo contengono. Rimane controversa la definizione esatta di dieta aglutinata. Una definizione standard di prodotto privo di glutine è quella che lo definisce come un alimento il cui contenuto di glutine totale non ecceda gli 0,005 g per 100 g di prodotto. Sembra che l’assunzione di meno di 10 mg al giorno di glutine sia sicura.

Prospettive terapeutiche per il futuro
Si stanno studiando, come possibili presidi terapeutici, la zonulina, proteina che regola le tight junction e che potrebbe modulare l’uptake di glutine a livello intestinale e l’utilizzo di anticorpi contro tTG, HLA DQ2 o DQ8 e contro i T cell receptor come terapia immunologica. Infine, sono in corso di studio alcune endopeptidasi che potrebbero degradare il glutine in sostanze meno immunogene.

La celiachia in Medicina Generale
Secondo studi condotti nella popolazione generale, è noto che la malattia celiaca ha una prevalenza di circa l’1%. Questo dato, rapportato al basso numero di diagnosi di malattia a tutt’oggi effettuate, porta all’affermazione di malattia sottodiagnosticata.
Secondo una nostra estrazione dal database di Health Search effettuata nell’ottobre 2006, su una popolazione di 640.000 assistiti da parte di 400 Medici di Medicina Generale (MMG), la prevalenza della malattia era di 1 caso ogni 543 assistiti (in media 2,94 pazienti/medico); una analoga estrazione effettuata nel 2003 riportava un caso diagnosticato ogni 664 assistiti (2,18 pazienti/medico). Quindi in tre anni si è passati in media da circa 2 a 3 pazienti diagnosticati per medico.
L’introduzione di test di laboratorio più sensibili e la maggiore conoscenza della malattia da parte della classe medica ha contribuito a questo incremento di diagnosi, anche se persiste la sottodiagnosi.
Questi dati sono comunque spiegabili dall’estrema variabilità di presentazione della celiachia, dalla sempre più frequente comparsa in età adulta, dalle manifestazioni prevalentemente extraintestinali e in particolare dal fatto che le forme silenti/asintomatiche sono 7-8 volte più frequenti rispetto a quelle sintomatiche. Infatti, è da tener presente che attualmente è raro diagnosticare pazienti con la forma classica della malattia, mentre prevalgono le altre forme in cui viene classificata la celiachia: atipica, silente, latente, potenziale.
C’è un acceso dibattito sulle procedure da seguire per incrementare le diagnosi, e credo si possa essere d’accordo con l’affermazione riportata nella Consensus Conference del National Institutes of Health del 2004: “The single most important step in diagnosing celiac disease is to first consider the disorder by recognizing its miriad clinical features”.

Nell’articolo di Umberto Volta pubblicato su questa stessa rivista (3/2007) sono riportate le condizioni cliniche che
possono associarsi alla malattia celiaca e i soggetti da sottoporre a screening con la ricerca degli anticorpi antitransglutaminasi,
ad oggi il test con la maggiore sensibilità; questa strategia di case finding è propria della Medicina
Generale e rientra quindi tra i nostri compiti e le nostre attività.

Possiamo dire che il caso clinico qui riportato rappresenti un “classico” della presentazione atipica della malattia celiaca. Per poter fare diagnosi è quindi necessario pensare alla malattia di fronte a segni e sintomi correlabili. È da tenere presente che a fronte di pochi casi di malattia celiaca diagnosticata da ciascun MMG, i soggetti che presentano almeno una condizione di rischio (come anemia sideropenia e ipertransaminasemia, per citare i più frequenti) rappresentano circa un quarto dei nostri assistiti.
È necessario comunque che buona parte di questi pazienti venga testata per la malattia, in particolar modo se presenta più di un fattore di rischio, e un approccio razionale alla diagnosi porterà a riconoscere nuovi casi che possono giovarsi del trattamento che andrà a modificare la storia della malattia prevenendone le complicanze.

Enzo Ubaldi

ResponsabileArea Gastroenterologica SIMG

Bibliografia

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